INDAGINI/In Italia

Tracce sulla pietra

Frammenti di un passato ancestrale

LE ORIGINI SCONOSCIUTE DEGLI UMBRI

Gli Umbri giunsero in Italia centrale intorno al I millennio a.C., occupando un’area che si spingeva fino alla costa adriatica e Est, all’attuale Romagna a Nord e alla Toscana a Ovest. Il nucleo portante di questa popolazione era tuttavia la zona appenninica centrale, che digradava sulla pianura dell’Alto Tevere.
Le fonti classiche, di derivazione romana, sono quelle di Strabone e Plinio il Vecchio, il quale scrisse: “…La gente umbra è considerata la più antica d’Italia, tanto che si ritiene che fossero chiamati ‘Ombrioi’ dai Greci per essere sopravvissuti alle piogge dopo il diluvio…”.
Tra l’VIII e il VII sec. a.C. gli Umbri svilupparono un’economia basata sull’agricoltura, l’allevamento e la lavorazione dei metalli, mentre nel V sec. cominciarono a sorgere i primi aggregati “pseudourbani”, quali Asisium, Fulginium-Fulginia, Ikuvium, Nuceria, Spoletium, Tadinum, Plestia, Tifernum, Tular, Vettona. Si passò perciò dalle semplici fortificazioni collinari a più estese concentrazioni urbane. I centri nodali di incontro, sparsi per il territorio, avevano diverse funzioni: commerciali, abitative, religiose. I villaggi fortificati sorgevano sulle colline a mezza costa o su alture che dominavano le principali vie di comunicazione. Lungo i fiumi si trasportavano le merci, in particolare cibo e legname.
Ben presto il territorio degli Umbri si andò assottigliando, a seguito della conquista della Toscana da parte degli Etruschi e dell’espansione dei Sabini. Nel 295 a.C. i Romani sconfissero la Lega che le popolazioni italiche avevano stretto con Galli ed Etruschi. Nell’invasione del territorio, anche gli Umbri vennero sottomessi e le loro terre occupate dai legionari.
Riguardo alla cultura religiosa, ancora una fonte romana (Cicerone) scrive che gli Umbri erano famosi per la elevata conoscenza dell’arte divinatoria (al pari degli Etruschi e dei Celti), grazie alla esplorazione e all’osservazione di tutti gli aspetti della natura.
Tutto quello che si conosce di questo antico popolo è riportato su alcune tavolette conservate presso il museo civico di Gubbio. Le “Tavole Eugubine” rappresentano ad oggi la più completa e organica testimonianza sugli Umbri. Si tratta di sette tavole in bronzo, redatte tra il III e il I sec. a.C. e trovate a Gubbio (sotto il teatro romano) nel 1444 da un agricoltore che poi le vendette al Comune. Cinque tavole sono scritte su entrambe le facce, mentre la VI e la VII hanno solo una faccia incisa. La lingua usata è il latino e l’umbro (un dialetto simile alle altre lingue italiche). Le prime quattro sono in dialetto umbro (paleoumbro) e le ultime due in lingua latina (neoumbro). Nella Tavola V sono invece presenti entrambi gli idiomi. Le Tavole Eugubine descrivono cerimoniali di “lustrazione ed espiazione” della città, e sono talmente importanti che Giacomo Devoto, linguista del ‘900, ebbe a dire: “[Le Tavole Eugubine]… sono il più importante testo rituale di tutta l’antichità classica. Non possediamo nulla di simile né in lingua latina né greca: per trovare paralleli, bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente…
Le Tavole rappresentano inoltre l’unica fonte per la conoscenza della grammatica della lingua Umbra che, a differenza del latino, non possedeva segni per le lettere o, g, d e spesso scriveva p al posto della b.
Del contenuto delle tavole va menzionata la preghiera che gli Ikuvini, cioè gli abitanti dell’attuale città di Gubbio, rivolgevano ai propri dèi tutelari per proteggersi dall’attacco di popoli nemici, come i Nahartes, gli abitatori della conca ternana in cui scorre il Nera (Nahar), i Japuski, probabilmente popolazioni adriatiche come Piceni e Iapigi, e il Turskum Nomen, ossia la vicina nazione etrusca. Proprio questa vicinanza fece forse confondere gli storici che, per trecento anni, considerarono le tavole di fattura etrusca.
In realta’ furono gli Umbri a dare origine etno-linguistica a tutti gli altri popoli che si insediarono dal Po al Sannio in epoca pre-cristiana: Savini, Sabini, Sanniti, Piceni e altri. Essi erano accomunati dalle stesse tradizioni funerarie e dalla costruzione delle tombe a circolo. Inoltre indossavano dischi agganciati ai pettorali e sugli schienali delle armature. Veneravano Marte, dio della Guerra, e si scambiavano bronzi votivi a lui dedicati. La controparte femminile era la dea Cupra, che nella lingua paleo-umbra significava “buona” (ricordiamo il trittico delle divinita’ femminili Bona-Cupra-Sibilla venerate dai Piceni e nella zona attorno all’anello dei Sibillini) e che i Romani chiamarono “Bona Dea”. Le tracce di questa divinita’ si trovano in tutto il territorio umbro da Fossato di Vico a Gubbio, alla Sabina e fino ai borghi marchigiani di Cupramontana, Poggio Cupro e Cupramarittima.
A Plestia, sull’altopiano di Colfiorito e lungo la strada e conduceva la mare, forgiarono un nuovo nome per identificare la dea Cupra e la chiamarono “madre Plestina” dedicandole un santuario.
I popoli sopra nominati erano accomunati da radici linguistiche e culturali comuni, a loro volta prodotto di precedenti migrazioni (probabilmente dal continente indoeuropeo al di la’ del Caucaso). Il rapporto di questi popoli con gli dei comprendeva praticamente ogni avvenimento quotidiano (ad esempio i giovani nati in stagioni funeste durante carestie, epidemie o guerre venivano consacrati a Marte). Quando si raggiungeva l’eta’ adulta i maschi partivano alla ricerca di nuove terre. Il tempo del “passaggio” coincideva con l’equinozio di primavera che simboleggiava il rinnovamento della natura.
Da piu’ parti si dice che gli Umbri furono la popolazione madre della penisola: dal “Ver Sacrum” sotto l’insegna totemica del picchio nacquero i Piceni; sotto quella del toro i Sanniti; sotto quella del lupo gli Irpini e i Lucani. La cultura italica si sviluppo’ fino all’arrivo dal mare degli Etruschi e, poi, alla conquista della penisola da parte di Roma. Queste due civilta’ in qualche modo oscurarono l’enorme valore antropologico delle culture pre-italiche, le quali avevano un livello di organizzazione gia’ piuttosto elaborato: Iguvium (l’odierna Gubbio) era una prospera citta’-stato al centro di una confederazione dove si parlava la stessa lingua e si praticavano gli stessi riti religiosi. E ogni indagine che voglia approfondire usi e costumi delle genti italiche deve necessariamente confrontarsi con le Tavole di Gubbio, definite “il piu’ importante testo rituale dell’eta’ classica”. Esse furono scoperte per caso nel 1444 circa da una contadina di Gubbio, certa Presentina, nei pressi del Teatro Romano. Nel 1456 le tavole divennero proprieta’ del comune che ne da’ testimonianza con un documento in latino firmato dal cancelliere Guerriero Campioni. L’amministrazione comunale tratto’ la vendita con Paolo di Gregorio, originario di Sinij (vicino Spalato) e che rappresentava la contadina che era analfabeta. Lei e la sua famiglia ottennero, dalla vendita, una cifra di 40 fiorini (l’equivalente dei proventi derivanti da due anni di gabella sui monti e sui pascoli). Il documento fu poi registrato sui libri delle Riformanze cittadine. E’, ad oggi, l’unico scritto pubblico che fa riferimento a documenti di bronzo. Campioni li descrisse come “Tavole d’avorio” e aggiunse “scritte in lettere latine e segrete”.
Come e’ possibile confondere l’avorio con il bronzo? E’ un mistero che fa ancora discutere ed apre a diverse interpretazioni, dall’equivoco linguistico (poca padronanza del latino?) alla possibile esistenza di altre tavolette, mai ritrovate, oltre a quelle di bronzo (quest’ultima e’ una nostra ipotesi personale).
Il mistero delle Tavole Eugubine appassiono’ generazioni di studiosi che provarono a decifrarle anche copiandole a mano (lo fece ad esempio il conte eugubino Giovan Battista Caltamaggi) e poi, con l’avvento della stampa, cominciarono a circolare diverse copie. Un archeologo di Volterra, Curzio Inghirami, parlo’ per la prima volta di un alfabeto umbro ma non ricevette molto credito vista la sua discussa fama di falsario.
Nel 1726 lo studioso Filippo Buonarroti, cui Cosimo de’ Medici aveva affidato la revisione dell’opera “De Etruria Regali” di Thomas Dempster (1619), incluse tra le iscrizioni etrusche conosciute anche le Tavole Eugubine. Tra le osservazioni legate alle tavole, Buonarroti scrisse che nelle iscrizioni non compaiono mai nomi con la terminazione in –al che era caratteristica della lingua dei Tirreni. Ne dedusse che la lingua delle Tavole non era etrusca. Da quel momento la lingua umbra prese una sua propria strada.
Scipione Maffei, erudito veronese apprezzato anche da Leopardi, volle vedere personalmente le tavole misteriose e, dopo un’attenta analisi, determino’ che non era una lingua etrusca.
Delle tavole scrissero anche Anton Francesco Gori (nel “Museum Etruscum”), Giovan Battista Passeri (il quale noto’ per primo che la prime e le ultime due tavole trattavano argomenti simili) e il gesuita Luigi Lanzi che ne analizzo’ il valore fonetico dei segni nel 1789.
Fu Karl Richard Lepsius, pioniere dell’archeologia moderna, il primo ricercatore che affronto’ le tavole su una base prettamente scientifica. Egli dedico’ all’argomento la sua tesi di dottorato nel 1833, assegnando a ciascuna tavola una numerazione e delle lettere (faccia A frontale e faccia B posteriore). La sua opera, intitolata “De tabulis eugubinis” fu pubblicata dall’ateneo di Berlino ed venne distribuita in tutte le universita’ europee.
Lo scrittore Lev Tolstoj menziono’ le tavole sulle pagine di Anna Karenina:

“Aleksej Aleksandrovic ordinò di servire il tè nello studio e, giocando col tagliacarte massiccio, andò verso la poltrona accanto alla quale erano preparati una lampada e un libro francese sulle Tavole eugubine del quale aveva iniziato la lettura”.

Nel secondo dopoguerra Giacomo Devoto disse: “Non possediamo nulla di simile ne’ in lingua latina ne’ greca: per trovare paralleli bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente”, aprendo ufficialmente all’esigenza di dover riscrivere almeno una parte di storia, o tradurre quella che vi era incisa sul bronzo. Molti glottologi italiani si cimentarono nel tentativo, da Vittore Pisani ad Aldo Prosdocimi, Piero Luigi Menichetti e Augusto Ancillotti (in tandem con Romolo Cerri). Attualmente sembra che la traduzione sia stata completata ed il significato delle incisioni “latine e segrete” rivelato.
A parziale sostegno della nostra ipotesi sull’esistenza di altre tavolette piu’ antiche cerchiamo di descrivere in dettaglio il loro contenuto:
Le incisioni sono fuse nel bronzo con un metodo detto della “cera persa” che consiste nel creare un modello di cera e utilizzarlo per fare uno stampo di argilla. Praticando due fori sullo stampo (uno in alto e uno in basso) si fa uscire la cera scaldandola e si versa del bronzo fuso al suo posto, cosi’ da ottenere un identico modello per misure e dimensioni.
Le tavole contengono 750 parole umbre (4365 se si considerano le ripetizioni o le voci simili che indicano gli stessi concetti). L’alfabeto umbro era composto da 18 lettere: 14 consonanti e 4 vocali (manca la “o”). La terza e la quarta tavola sono scritte solo su un lato e sono piu’ piccole rispetto alla prima e la seconda che hanno le stesse dimensioni; la quinta e’ di grandezza media mentre le ultime due sono le piu’ grandi. Si leggono da destra a sinistra fino ad una parte della quinta. La seconda parte e le ultime due invertono la direzione di lettura e sono in alfabeto latino (verrebbe da pensare ad una aggiunta successiva). I testi sono molto piu’ antichi delle tavole, essendo stati recuperati da iscrizioni precedenti e su materiali piu’ deperibili come pelli, legno, ecc. Non si puo’ naturalmente escludere che le tavole di bronzo siano copie di originali che potevano essere state conosciute al tempo del ritrovamento (e della registrazione comunale) e poi misteriosamente scomparse. Non solo testi antichi, ma anche redatti in periodi differenti e da autori diversi. Si tratta quindi di un importante registro storico delle cronache del tempo, utilizzato da diverse generazioni che potevano cosi’ conservare i riti religiosi della Confraternita Atiedia (un’associazione di cittadini di Iguvium e di altre comunita’ della Confederazione).
Per mezzo del rituale si e’ potuta ricostruire la societa’ degli antichi Umbri: la confraternita Atiedia era composta da cento membri, cinque per ogni comunita’. La Confederazione era quindi composta da venti citta’-stato sotto la direzione di Iguvium delineando la prima organizzazione politica sulla penisola di cui si ha notizia. La comunita’ cittadina veniva chiamata Tota; Fisio era il nome del monte su cui Iguvium era costruita; Okri indicava il luogo sacro, l’acropoli cittadina dove il popolo si raccoglieva. Popolo, o Poplo, indicava gli uomini che erano in grado di impugnare un’arma per combattere riuniti in katera (simili alle centurie Romane).
La cosmogonia umbra prevedeva un intenso rapporto con la divinita’: l’uomo parlava con gli dei e lo faceva a pari livello. Egli si poneva al centro dell’universo (come i Celti) e cercava di controllarlo attraverso la forza magica della parola. Le preghiere venivano recitate con voce chiara e forte, o in silenziosa meditazione.
La Tavola V descrive una societa’ di tremila anni fa: la confraternita era formata da un collegio a base maggioritaria. Un officiante si occupava dell’esecuzione degli atti e dell’enunciazione delle parole cerimoniali, anche se doveva sottoporre ogni atto al gradimento dei confratelli che potevano premiarlo o punirlo a seconda del suo operato. In alto come in basso, il rapporto verticale (con la divinita’) e quello orizzontale (con gli altri membri della comunita’) avevano le stesse regole, rette da principi di lealta’ e rispetto dell’impegno assunto. La parola data era divinizzata con il nome di un dio (Fisone Sancio) che cosi’ sacralizzava (“sanciva”) una decisione, validandola agli occhi della societa’. Il dio era cosi’ garante dei patti e delle regole che tutta la Confederazione doveva rispettare. I nove testi raccolti nelle sette tavole raccontano, tra le altre, lo svolgersi delle cerimonie di purificazione religiosa (piacula) e militare (lustratio); le prescrizioni del rito “per auspici avversi”; la cerimonia delle cinque giornate Sestentasie che dovevano propiziare il raccolto; definiscono diritti e doveri degli officianti e illustrano le regole tributarie e commerciali nei rapporti tra le citta’ della Confederazione.
La cerimonia militare della “lustratio” si teneva in modo periodico visto che le battaglie portavano distruzione e alteravano l’ordine naturale delle cose. Era quindi necessario purificarsi prima di scendere in armi contro un nemico. E comunque nelle Tavole e’ chiaramente scritto che si doveva dare battaglia solo se costretti a difendersi. Il concetto della guerra per gli Umbri era visto in modo negativo e si doveva tener lontano dalla vita di tutti i giorni. Saranno i Romani a trasformare gli eserciti in strumento di conquista e di espansione territoriale, riorganizzando le antiche vie commerciali dei popoli italici in efficienti strade consolari che servivano per muovere in fretta la macchina militare delle legioni.
La Lustratio era anche un modo per contarsi e capire chi era in condizione di combattere, una delle piu’ antiche forme di censimento che si conosca. La conta dei potenziali soldati escludeva gli stranieri e tale disposizione era esplicita, sottintendendo la presenza di un numero consistente di non-cittadini a Iguvium.
Nella vita quotidiana gli Umbri cercavano continuamente il mers, la “giusta misura” o equilibrio, come si evince dall’imprecatio, la preghiera alla divinita’ di Torsa Giovia per ottenere la sconfitta dei nemici (Tavola VII): si chiede alla dea di terrorizzarli perche’ ripieghino su altri territori per le loro scorrerie. Una tale invocazione, come tutte in generale, rappresenta la piu’ antica formulazione poetica realizzata sulla penisola ed era caratterizzata da una ritmica incalzante e piena di allitterazioni. Il suono delle frasi veniva ripetuto piu’ volte per dare maggiore enfasi alla preghiera.
La Conferderazione Atiedia confinava con Perugia e le altre citta’ sotto il controllo degli Etruschi; verso il mare vi erano gli Iapodi (pirati illirici che infestavano le coste dell’Adriatico); a sud, altri genti Umbre come i Tadinati (nel territorio dell’odierna Gualdo Tadino) e i Naharchi (che vivevano a Terni e lungo le sponde del fiume Nera).
Nelle Tavole convivono due culture umbre, quella dell’Eta’ del Bronzo e quella dell’Eta’ del Ferro: nella prima c’e’ una visione del divino misteriosa e duale (uranio, celeste, e ctonio, sotterraneo). Nella seconda vi e’ invece una visione tripartita che vede il divino articolato in potere della parola, poterse della forza fisica e potere della fecondita’. Il dio che interpreta quest’ultima qualita’ e’ Vofion, la divinita’ del clan. La trinita’ si compone cosi’ di Giove Grabovio, Marte Grabovio e Vofione Gravobio, tutti e tre con lo stesso carattere di Grabo (una divinita’ Iguvina ancestrale). Giove era anche il patrono del monte Fisio cosi’ come della Confraternita Atiedia, mentre Marte era il dio dei guerrieri-pastori. Vofione, infine, era il dio della fertilita’ che assicurava la discendenza e il futuro di Iguvium.
Il trittico di divinita’ che si ripete per tutto il mondo classico (e per tutte le culture del mondo antico). Il numero tre, magico per eccellenza, si ritrovava nelle porte maggiori della citta’ (porta Tessenaca, porta Trebulana, porta Vehia), negli animali sacrificati per ciascun dio, per gli enti beneficiari delle offerte, nei tempi del sacrificio e nel tempo ternario della danza rituale. La proclamazione del rito doveva essere ripetuta tre volte prima che l’esercito potesse sciogliersi (Tavola VI).
La stessa Corsa dei Ceri, festa popolare che ancora oggi viene celebrata, ha nei tre ceri il simbolo dei santi di Gubbio: Ubaldo, Giorgio e Antonio (che ripropone, in chiave cristiana, la trinita’ Giove-Marte-Vofione). Ogni evento e’ permeato dal numero tre: processioni, sfilate, giri nella piazza, soste simili ai cortei dei sacerdoti di Marte (i Salii sabini). Da qui nacquero il saltarello e la tarantella, danze popolari in termpo ternario che imitavano l’ahtrepudaom (tripudiare), citato nelle Tavole e letteralmente “battere i piedi in tre tempi”.
I ceri che vengono oggi trasportati durante la corsa poggiano su un’enorme piano di legno che ricorda l’antica Kletra, la portantina che serviva a trasportare gli animali (pecore o maiali) sul luogo del sacrificio rituale. Si trattava della cerimonia delle Sstentasie per propiziare i raccolti e inaugurare la stagione della semina. Dietro la Kletra tutta la citta’ seguiva fino al monte sacro, l’Okri Fisio. Sulle Tavole e’ scritto: “Alven kletram aparito” che significa “al campo si allestisca la portantina”, da intendersi come istruzione precisa ad assemblare la kletra fuori dalla citta’.
Un’altro elemento interessante della cerimonia e’ che, durante il suo svolgimento, dodici giovenche venivano messe in fuga per le vie di Iguvium e dovevano essere catturate. Questo rito e’ giunto fino ai tempi moderni con la corrida di Pamplona ma somiglia anche alla versione originaria della “Festa del Bove” di Montefalco, dove un bue veniva abbeverato da un cocktail di pepe e vino e lasciato libero tra le vie cittadine. L’animale infine moriva sfinito tra le urla eccitate della popolazione.  
Dall’organizzazione dei riti a quella del governo cittadino, fino alla predisposizione di una rete di citta’ tra loro alleate, gli Umbri gettarono le basi per la moderna civilta’. All’interno delle citta’-stato giustizia e governi civili e religiosi erano gia’ sviluppati, cosi’ come il concetto di patria comune che doveva essere protetto e difeso. Altri principi come la proprieta’ privata, la famiglia patriarcale e la “cosa pubblica” erano conosciuti e rispettati.
La Confederazione (Deku) delle venti citta’ garantiva inoltre un flusso commerciale dato da scambi di merci, spostamento di bestiame da pascolo e rapporti di altra natura. Essa facilitava la costruzione di strade, ponti, canali di irrigazione e appezzamenti agricoli.
Nacquero delle figure deputate al mantenimento dell’ordine pubblico come il magistrato (Uhtur), il curatore di opere pubbliche (Maron), il giudice (Meddix) e l’arbiter, il mediatore, a cui era demandato il compito di risolvere le controversie in modo pacifico e imparziale.
Non e’ un azzardo pensare che l’organizzazione di Roma non sia stata traslata esclusivamente dal mondo greco ma da un mondo piu’ vicino anche se meno appariscente: i rituali della fondazione dell’Urbe, ad esempio (come descritti dalla leggenda di Romolo e Remo), fino alla religione, all’ideologia sociale e alle radici profonde del diritto romano. I nomi degli antichi re sabini di Roma sono il simbolo stesso di questo parallelismo: Tito Tazio (regno’ per cinque anni insieme a Romolo), Numa Pompilio (padre riconosciuto della citta’ che poi diventera’ la capitale del mondo).
Le Tavole Eugubine vanno a completare il quadro dello scenario pre-romano che stiamo trattando non molto lontano, nella zona del Piceno (il primo articolo della serie e’ pubblicato in questo stesso numero), anche se in questo caso le fonti sono piu’ scarne ed enigmatiche. Ma anche per gli Umbri, come per le vicende picene, la storiografia ufficiale e’ stata finora piuttosto miope e pigra. Il fascino dell’antico passato e’ ancora presente in luoghi piu’ o meno remoti degli Appennini e solo un paziente lavoro di ricerca e un approccio aperto potranno forse ricostruire il filo degli eventi che hanno legato i primi popoli italici all’avvento dei grandi imperi.